Lo Stalin di Corti, finalmente

Una scena della tragedia

Una scena della tragedia

Mosca, primo marzo 1953. Due guardie vegliano davanti all’ufficio di Iosif Vissarionovic Džugašvili, per tutti, Stalin. Hanno un copricapo di feltro con una gigantesca stella rossa, è troppo calcato sugli occhi e forse li acceca. Il senso della loro missione li aiuta a non avere indugi: «È un grande compito il nostro: vigilare da vicino la vita del grande compagno Stalin […]. Tremendo compito, che non ci concede di allentare la tensione nervosa nemmeno per un minuto».

Vegliano su Stalin perché a sua volta lui vegli e sani «i mali del mondo». Non sanno però che il loro Stalin è un uomo spezzato, inerte come il suo braccio sinistro, rattrappito per il morso di un cane rabbioso in gioventù. D’improvviso il coro invade la platea, cantando «io non dubito né dubiterò»: è un fiume di ragazzi in corsa sul palco con bandiere rosse. Una statua di bronzo del dittatore oscilla sulle spalle di ragazze con gonna lunga e camicia bianca: sarà un evocativo totem per l’intero spettacolo, come una sfinge o una divinità ferita alla Mitoraj.

Poi il sipario si apre su di Lui, il Tiranno, il grande Epuratore.

Le luci tingono il palco di un’aura malata e sanguigna: la scena è spoglia, presidiata soltanto dal protagonista al tavolo di lavoro. Ci sono un telefono e un libro. Basta un telefono per uccidere, e un libro con l’effigie di Lenin, perché il verdetto sia consono alla Dottrina e legittimi tutto quel sangue…

Sono queste le prime scene del Processo e morte di Stalin, la tragedia (ripubblicata dalle Edizioni Ares lo scorso inverno) scritta da Eugenio Corti nel 1961 e tornata sul palco dopo un esilio di decenni. Il dramma fu infatti presentato per la prima volta nell’aprile del 1962 dalla Compagnia Stabile di Diego Fabbri presso il romano Teatro della Cometa (per chi volesse tuffarsi nel clima di quegli anni e della prima rappresentazione, è possibile rileggerne la dolente cronistoria nel terzo volume del Cavallo rosso).

L’opera di Corti fu presto silenziata come eretica per il suo implacabile j’accuse al sistema comunista, ma riuscì a incontrare l’entusiasmo di alcuni intellettuali. Tra questi, il grande studioso di teatro Mario Apollonio che, convinto che «realtà, storia, sostanza di cose sperate» fossero il motore della scrittura di Corti, scrisse: «Il male è scrutato con chiarezza implacabile e redento con pietà infinita: il fatto religioso (e senza religione nessuna tragedia è possibile) consente, al di là del giudizio, l’amore. Processo e morte di Stalin vale come risoluto e fiducioso esorcismo contro la tentazione, ogni giorno più chiara ai nostri occhi, di farne segnacolo in vessillo per una nuova strage, a prolungare oltre la morte il suo orrendo potere: spezza la catena dell’odio, esautora nel tiranno la forza del male, ci riconsegna un uomo».

La tentazione di estirpare il male
Il dramma è ritornato per tre serate (24, 25, 26 giugno) al teatro Manzoni di Monza con la carismatica presenza di Franco Branciaroli, la produzione del Teatro de Gli Incamminati, la partecipazione del Liceo Don Gnocchi di Carate Brianza e la regia di Andrea Maria Carabelli, che così si è espresso sul cuore pulsante della vicenda: «Stalin rappresenta la tentazione di ogni uomo. Perché la tentazione più grande non è tanto il male che compiamo, fosse anche fatto di milioni di morti, ma pensare che il male possa essere estirpato dall’uomo e dal mondo».

Branciaroli (salutato alla prima apparizione da un lungo applauso di riconoscenza) impersona uno Stalin assiderato dalla solitudine. I fantasmi dei massacri compiuti lo accerchiano. Allo stesso tempo teme congiure. Nessuno è fidato fuori dalla sua stanza: è stanco, sente il fiato sul collo dei «lupi» e dei «maledetti cani» (così apostrofa i suoi nemici): «Devo stare in guardia: perfino il cane che ha già la schiena rotta dalle randellate, può ancora azzannare».

La resa del primo «soliloquio» di questo Stalin «svuotato» è di una bellezza da brividi. Ha tra le mani una testa bronzea di Lenin e mette amleticamente sulla bilancia la propria vita: «Lenin, maestro nostro, che da trent’anni giaci nella tua tomba di cristallo. Io sono oggi più solo che mai. Di tutto il tuo Politburò io solo sopravvivo. […] A trent’anni di distanza, eccomi a lottare ancora come il primo giorno, per salvarmi io stesso. Così enorme fatica è costruire la società comunista degli uomini nuovi. Il mio unico amico sei tu, ormai, morto…».

Nella creazione di Corti i fantasmi di Stalin divengono realtà. Il Cremlino è diventato infido, ma neppure la dacia di Cúntsevo è più sicura. I «lupi» azzannano la carne. Hanno i volti degli ex fedelissimi: di Beria, il capo della polizia, di Bulganin, Caganovic, Crusciov, Malencov, Micoian, Molotov, i membri del Politburò.

Stalin è così catturato nella sua dacia e portato in tribunale per rendere conto delle sue nefandezze… ma quando tutto sembra perduto (adesso è lui il cane dalla schiena spezzata) riesce a dare filo da torcere agli accusatori. È uno scorpione con molto veleno sulla coda. Ribatte a un’accusa dopo l’altra: non poteva agire diversamente… era un sentiero scritto nel copione della Dottrina…

Franco Branciaroli, che ha interpretato sia Riccardo III sia Macbeth, due titani squassati da solitudine e potere, non ha avuto difficoltà nel frugare la coscienza dello Stalin di Corti: «Stalin è un personaggio gigantesco… appena ho cominciato a leggere il dramma sono rimasto abbagliato da quei colpi di luce shakespeariana».

La sua anima lacerata esce con singolare potenza nel dialogo con la nuora Olga Goliscéva (una bravissima Cinzia Spanò), anche lei sconfitta dalla vita. È forse il momento più alto del dramma. Olga ha perso il marito Jascia troppo presto (suicida otto anni prima in un lager) e vive isolata, carica dei dolori del mondo (la sorte dei deportati), in un’atmosfera irreale alla «corte» del dittatore. Stalin vorrebbe provare in extremis a instaurare un rapporto di umanità con lei; come un vero padre con una vera figlia: «Vorrei che almeno tu… vorrei avere almeno una persona che mi parli in modo spontaneo, senza l’ipocrisia e la reticenza di tutti gli altri. E questo nessuno all’infuori di te potrebbe farlo. Olga, ora te l’ho detto e lo sai, che io ho bisogno di te…».

Olga fragile & forte
L’Olga della Spanò è uno dei personaggi più riusciti e convincenti della nuova tragedia diretta da Carabelli. Donna fragile e forte allo stesso tempo, perché in bilico tra gli spettri della memoria («Vedo [Jascia] camminare in fretta, nella sua spiegazzata divisa di soldato, su per il sentiero che conduceva alla nostra casetta, nel Cubàn; e io mi sveglio ogni volta per l’insostenibile emozione») e il sogno di poter incominciare un vita nuova dopo la «conversione» di Stalin. Perfetto anche il cinismo di Federico Vanni che ha dato l’anima a Beria, l’uomo senza scrupoli che dissiperà i dubbi degli altri congiurati mandando a morte il dittatore. Particolarmente efficace è l’azione del coro. L’entrata in platea con il tripudio di bandiere rosse è di un impatto straniante, come anche la rievocazione della storia di Cristina: le ragazze in camicia bianca dietro una cancellata sembrano le corde di una gigantesca arpa che cantano l’epopea della piccola deportata polacca («Cristina dai bei capelli neri, che un giorno fuggivi disperata per le inospiti terre del Baical!»).

Da mandare a memoria anche il sontuoso finale: Stalin è disteso sul lettino, i medici lavorano su di lui perché sembri una morte naturale, con i sintomi dell’emorragia celebrale. Il suo ultimo gesto sarà alzare il braccio sinistro con il pugno chiuso, quasi gridando contro il cielo per aver cercato di adempiere all’Idea e non sapendo di aver ingaggiato un disperato corpo a corpo con Dio («E perché non è lecito uccidere? Chi lo dice? Dio lo dice: lo sapete o no? E vorreste tornare sotto il giogo di Dio, voi, moderni uomini liberi?»).

Per spegnere l’entusiasmo del pubblico ci sono voluti cinque sessioni di applausi, i più felici e disorientati sembravano i ragazzi del Don Gnocchi, riportati cinque volte al centro dalla scena da un Branciaroli visibilmente soddisfatto.

Alla «prima» il teatro Manzoni ha registrato il tutto esaurito (da segnalare il ruolo decisivo per la realizzazione delle Fondazioni Il cavallo rosso e Costruiamo il futuro). C’è da augurarsi che questa nuova versione del Processo e morte possa presto iniziare un tour per i teatri italiani, magari anticipando l’arrivo sul grande schermo delle gesta della famiglia Riva e di tutti i protagonisti del Cavallo rosso…

(Alessandro Rivali, luglio/agosto 2011, Studi Cattolici)